Pennacchi, ex operaio alla Alcatel Cavi di Latina per oltre trent’anni, prima missino, poi maiosta, poi socialista, poi in Cgil e Uil,  aveva fatto di questa sua trasversalità politica, che poi è vicinanza umana e sociale, perfino storica, un tratto distintivo.

In Canale Mussolini Pennacchi racconta , romanzandola, la storia della sua propria famiglia, cui dà il nome fittizio di Peruzzi (« Bello o brutto che sia, questo è il libro per cui sono venuto al mondo »). La saga familiare (vivida, comicissima ma anche dolente, tenera e drammatica, recitata nei dialoghi in un gustoso dialetto veneto) si innesta nella storia della grande bonifica dell’Agro Pontino che ha determinato il trasferimento di 30000 mezzadri dalla pianura padana. 

Tutti i familiari sono veraci e diretti: ciascuno incarna a modo suo una comune istrionica vitalità (molto veneta). Si esprimono rigorosamente in dialetto, un dialetto “veneto-pontino” colorito e efficace, iconoclasta e comico.  Visti attraverso quella dissacrante lente tutti i fascisti sono persone, seppure con i loro difetti, molto umane. Nella vicenda di Canale Mussolini non ci sono fascisti malvagi, non c’è il Male.

La voce narrante che ci racconta la vicenda, ci intrattiene con continue e un po’ pedanti spiegazioni e digressioni, che spaziano dall’agronomia alla storia.

 E Pennacchi ricostruisce per esempio nel parlato caldo delle veglie invernali il dilemma del Duce : «L’Adolfo glie lo aveva detto chiaro al Duce :’stà fora tì,per i commerci mi sei più comodo fuori che dentro. Dentro mi dai solo impiccio’. ‘Va bèn Dolfo, nantri restémo fòra’, ha risposto. Però dentro gli rodeva :’Che figura fàsso ?’ pensava tra di sé. » E cosi era entrato in guerra, e sappiamo come andò a finire

Protetti dallo sguardo sempre benevolo di chi racconta, immancabilmente pronto a trovare giustificazioni e scusanti, di ordine sociologico (la povertà, il ruolo di reietti) o altro, i personaggi sono liberi di comportarsi come vogliono, non sono chiamati a rispondere delle loro azioni, non hanno alcuna colpa. Sono solo vittime. E mano a mano che il tempo passa, e diventa più difficile considerarli solo delle pedine della storia, la frase liberatoria “Ognuno gà le so razon” diventa sempre più frequente, fino a diventare, un ritornello. “Ognuno gà le so razon” può giustificare tutto, dagli eccidi dei partigiani allo sterminio degli etiopi e degli ebrei. Il dilemma della banalità del male trova finalmente una soluzione: nel buon senso veneto.