Varlam Salamov, nato a Vologda nel 1907 e morto a Mosca nel 1982, è stato scrittore, poeta e giornalista. Figlio di un prete ortodosso e di un’insegnante, lasciò la famiglia per studiare Giurisprudenza.
Dal 1927 svolse attività d’opposizione al regime staliniano, fu arrestato e deportato per la prima volta in un campo di lavoro a nord dell’Ural. Liberato nel 1932, tornò a Mosca, dove intraprese l’attività giornalistica, scrisse poesie e racconti, ma nel 1937 fu nuovamente arrestato e deportato nella Kolyma, in Siberia. Fu riabilitato nel 1957 e da allora venne autorizzata in Russia solo la pubblicazione di qualche breve raccolta di poesie. Solo alla fine degli anni Ottanta, dopo la sua morte, le opere di Salamov hanno cominciato ad essere pubblicate in patria.

I racconti della Kolyma sono costituiti da una serie di racconti brevi che descrivono scorci di vita quotidiana nell’inferno dei lager staliniani del grande Nord siberiano.  Una scrittura semplice, essenziale, gelida come l’ambiente che circonda i prigionieri: una natura che con la sua asprezza sembra allearsi con gli aguzzini per facilitarne il compito, una natura maligna che ruba le ultime briciole di umanità, che non lascia scampo che non consente vie di fuga. 

Un ambiente che a tratti viene descritto con lirismo toccante come avviene nel bellissimo capitolo sul Pino mugo, un arbusto che abita le montagne e riesce a far penetrare le proprie radici nelle fessure delle rocce, una pianta caparbia e coraggiosa che annuncia l’arrivo dell’inverno è poi della primavera, quasi la metafora di queste anime perdute in un inferno che nemmeno Dante è riuscito ad immaginare così crudele :

“ la nostra epoca è riuscita a far dimenticare all’uomo che è un essere umano”. 

Quasi in ogni racconto il finale  trafigge il lettore all’improvviso come una pugnalata, inaspettato, gelido, agghiacciante. Eppure lo scrittore non esprime mai odio, rancore, condanna per i carnefici, resta distaccato, lontano, impassibile forse perché il freddo, la fame, la fatica bloccano anche il pensiero, i sentimenti, i progetti: il deportato non è più in grado nemmeno di far programmi per il domani è completamente concentrato a sopravvivere, ora ! 

“L’essenziale non è qui, ma nella corruzione della mente e del cuore, quando giorno dopo giorno l’immensa maggioranza delle persone capisce sempre più chiaramente che in fin dei conti si può vivere senza carne, senza zucchero, senza abiti, senza scarpe, ma anche senza onore, senza coscienza, senza amore né senso del dovere. Tutto viene a nudo, e l’ultimo denudamento è tremendo. La mente sconvolta, già attaccata dalla follia, si aggrappa all’idea di “salvare la vita” grazie al geniale sistema di ricompense e sanzioni che le viene proposto. Questo sistema è stato concepito in modo empirico, giacché è impossibile credere all’esistenza di un genio capace di inventarlo da solo e d’un sol colpo.”

“Eravamo tutti stufi del vitto del campo. Ci veniva quasi da piangere, ogni volta che vedevamo trasportare nelle baracche, appesi a dei bastoni, i grandi bidoni di zinco pieni di brodaglia. Eravamo pronti a piangere dalla paura che la zuppa fosse troppo acquosa. E quando accadeva il miracolo ed era densa, quasi non ci potevamo credere e la sorbivamo più lentamente possibile. Ma anche dopo una minestra densa, nello stomaco riscaldato rimaneva un dolore sordo: soffrivamo la fame da troppo tempo. Tutti i sentimenti umani: l’amore, l’amicizia, l’invidia, l’altruismo, la compassione, la sete di gloria, l’onestà, avevano abbandonato il nostro corpo, insieme alla carne perduta durante il prolungato digiuno”.