Un libro molto bello e straziante che dà memoria alle sofferenze del popolo ucraino.

Pubblicato su una rivista nel 1966, in una versione brutalmente tagliata e rimaneggiata dalla censura sovietica (nell’edizione integrale di Adelphi sono tutti visibili grazie a piccoli segni diacritici a inizio e fine di ogni passo censurato), Babij Jar venne dato alle stampe nella sua veste integrale quattro anni dopo, una volta che Anatolij Kuznecov (Kiev, 1929 – Londra, 1979) era riuscito a fuggire in Occidente.

Un libro agghiacciante che, a tratti con incredibile crudezza, descrive il destino tragico del popolo ucraino schiacciato da tedeschi e sovietici che si stanno scontrando «come il martello e l'incudine», e in mezzo ci sono gli insignificanti «omuncoli»

Kuznecov spiega come si siano combattute due barbarie, si siano affrontati due campi di concentramento. Entrambi volevano estendere il dominio su tutto il mondo: «La guerra santa dell’Urss contro Hitler non fu altro che una lotta straziante per il diritto di restare rinchiusi nel proprio campo di concentramento anziché in quello straniero, nutrendo speranze di estenderlo al mondo intero». Non c’erano differenze di principio, dice Kuznecov, fra i due sadismi: «Nell’umanesimo tedesco di Hitler c’erano più inventiva e crudeltà fantastica, ma nelle camere a gas e nei forni crematori morivano cittadini di altre nazioni. L’umanesimo socialista non si spinse a immaginare i forni crematori, ma in compenso annientava i propri connazionali». E tutti, in Germania e in Urss, sapevano tutto.

«Dio sia lodato, questo regime di pezzenti è finito» dice nonno Semerik, che il potere sovietico lo odiava con tutta l'anima, quando i tedeschi occupano Kiev nel settembre del 1941. «Ora si comincia a vivere». Tolik ha solo dodici anni, ma non gli ci vorrà molto per capire che le speranze del nonno sono vane. Ben presto Babij Jar, la forra nei pressi di Kiev, diventerà la tomba della popolazione ebraica, e poi di zingari, di attivisti sovietici, di nazionalisti ucraini, dei calciatori della Dinamo che si sono rifiutati di farsi battere dalla squadra delle Forze armate tedesche, di chi ha rubato del pane. E mentre da Babij Jar giungono senza tregua i colpi della mitragliatrice, mentre gli attentati organizzati dagli agenti dell 'Nkvd devastano la via principale e persino la venerata cittadella-monastero, mentre cominciano le deportazioni, Kiev diventa una città di mendicanti a caccia di cibo. 

«Che idiota, quell’Hitler!» disse il nonno. «tedeschi non sono per niente così cattivi, è lui che ne ha fatto delle carogne. Quanto li aspettavamo! Se fossero arrivati come persone normali, già da un pezzo Stalin sarebbe stato kaputt. La gente era disposta a vivere anche sotto lo zar, anche sotto il borghese, purché non sotto Stalin. E invece quel mostro si è rivelato ancor peggio di Stalin. Ah, che vi venga il tremito... Puah!».‹ Per Tolik, che aveva conosciuto la terribile fame staliniana, l'unica via d'uscita è sopravvivere in barba a tutto, crescere. Crescere per odiare chi trasforma il mondo in una prigione, in un «frantoio per pietre per denunciare violenze e menzogne. Anche le ultime, atroci: dopo la liberazione di Kiev, Tolik e sua madre, in quanto persone «vissute sotto l'occupazione », verranno marchiati come «merce scadente» - e il massacro di Babij Jar cancellato.

Fermamente intenzionato a fornirci «un ritratto fedele di ciò che è stato», Kuznecov scrive in maniera scorrevole; utilizza periodi piuttosto brevi, che conferiscono alla narrazione un ritmo rapido; si avvale di un lessico essenziale e incisivo; alterna abilmente i diversi registri espressivi. Riesce così a elaborare un testo omogeneo, nel quale la sua prosa e i tanti documenti citati danno luogo a un’ammirevole armonia: una qualità che si aggiunge ai tanti meriti di un’opera che ci consente di conoscere meglio uno degli avvenimenti più raccapriccianti della storia del Novecento.