Bellissimo, avvincente, terribile, ti ipnotizza e ti affascina come la contemplazione della tempesta.
Sono in realtà tre romanzi che si susseguono e si compendiano e si compenetrano.
Il primo, raccontato tutto in prima persona plurale ‘il grande quaderno’ racconta le vicende di due fratelli gemelli identici, Lucas e Claus i cui nomi sono l'uno l'anagramma dell’altro. Si svolge in un paese non ben identificato nel quale non è difficile riconoscere l’Ungheria della seconda guerra mondiale e del primo dopoguerra.
Lo stile è particolarissimo: frasi brevi, a volte costituite solo dal soggetto e dal verbo, secche, puntuali, essenziali, fredde, con le quali i due gemelli descrivono gli avvenimenti che li coinvolgono, caratterizzati da una incredibile durezza, drammaticità, ferocia che lasciano lo spettatore desolato.
Il loro agire è cinico, razionale, improntato esclusivamente alla sopravvivenza. In fondo pero’ hanno una loro morale
“A tavola Nonna dice:
Avete capito. Vitto e alloggio bisogna meritarseli.
Diciamo: - Non è per questo. Il lavoro è pesante, ma stare lì a far niente guardando qualcuno che lavora è ancora più pesante, soprattutto se è vecchio. Nonna sghignazza.
Figli di cagna! Volete dire che vi ho fatto pena?
No, Nonna. Ci siamo soltanto vergognati di noi stessi.”
Il secondo racconto è quello del dolore: il dolore della separazione tra i due gemelli, il dolore della perdita della donna amata, dell'amico più caro e di un figlio desiderato e mai avuto. Il terrore adesso si è trasformato in angoscia, in paura, in solitudine.
I toni si stemperano, vengono narrate le vite separate dei due protagonisti, ormai adulti. I capitoli si allungano, così la sintassi diventa più complessa ed i periodi più articolati.
La guerra trasforma una unione simbiotica in una dissociazione radicale e quasi schizofrenica, due vite separate a cercare due strade differenti verso la sopravvivenza. Il tema dell’esilio che ha notevoli riflessi autobiografici, caro all’autrice, si ripropone con un giudizio durissimo sul nostro mondo libero
«È una società fondata sul denaro. Non c’è spazio per le domande che riguardano la vita. Ho vissuto per trent’anni in una solitudine mortale»
Tutti i personaggi principali scrivono.
“ ..ogni essere umano è nato per scrivere un libro, e per nient’altro. Un libro geniale o un libro mediocre, non importa, ma colui che non scriverà niente è un essere perduto, non ha fatto altro che passare sulla terra senza lasciare traccia “
Il romanzo prosegue in un rincorrersi di sogni e realtà, un gioco degli specchi, di tunnel spazio-temporali in cui perdersi.
Infine l'ultimo racconto è quello della rassegnazione, pessimistica rassegnazione di fronte alla tragica realtà della vita che nessuna menzogna, nessun tentativo di mascheramento potrà mai celare del tutto:
"la vita è di una inutilità totale, è nonsenso, aberrazione, sofferenza infinita, invenzione di un Non-Dio di una malvagità che supera l'immaginazione".
La fine del tormento, la speranza di ritrovare la pace, arriva solo con la sarcastica negazione della vita:
“Penso anche che presto saremo di nuovo tutti e quattro insieme. Morta Mamma, non mi rimarrà nessuna ragione per continuare.
Il treno è una buona idea. “