Come riassume lo stesso autore “il libro è il resoconto psicologico di un delitto. Un giovane, espulso dall’università, borghese per estrazione e in condizioni di grande indigenza, per leggerezza, per mancanza di convinzioni salde, influenzato dalle idee strane e “incompiute” che aleggiano nell’aria, ha deciso di prendere una scorciatoia e strapparsi dalla propria situazione incresciosa. Ha deciso di uccidere una vecchia, vedova di consigliere titolare, che prestava soldi su interesse. La vecchia è scema, sorda, avara, si prende interessi da ebrea, è cattiva, succhia la vita degli altri, tormentando a casa propria la sorella minore che le fa da serva. « Non serve a niente », « vive a che scopo? ». « È utile almeno a qualcosa? » ecc. Queste domande confondono il giovane. Decide di ucciderla, rapinarla, con lo scopo di far felice la propria madre che vive in provincia, di salvare la sorella…. ..con lo scopo di finire i corsi, andare all’estero e poi essere onesto, saldo, coerente per tutta la vita nel compiere il proprio dovere.
Nonostante delitti simili siano terribilmente difficili da compiere, cioè quasi sempre in modo grossolano vengono disseminati tracce e indizi e moltissimo viene lasciato al caso, che quasi sempre tradisce i colpevoli, lui riesce in modo assolutamente casuale a compiere la propria impresa presto e bene. Passa quasi un mese prima della catastrofe finale. Non ci sono né ci possono essere sospetti su di lui. Ma è qui che si gioca tutto il processo psicologico del delitto. Davanti all’assassino si ergono questioni insormontabili, il suo cuore è dilaniato da sentimenti insospettabili e inattesi. La verità di Dio, la legge terrena si fanno valere e lui finisce per dover costituirsi. Deve farlo per poter ritornare nel consesso degli uomini, pur al prezzo di rovinarsi al bagno penale; lo tormenta il sentimento di chiusura e di isolamento nei confronti dell’umanità, che sente immediatamente dopo aver compiuto il delitto.
In Delitto e castigo il mistero da risolvere non riguarda, dunque, l’identità dell’assassino, bensí le sue motivazioni e, come in ogni giallo che si rispetti, Dostoevskij ci riempie la testa di falsi indizi. Il delitto sembra trovare spiegazioni a diversi livelli, sociologico, psicologico e ideologico, che alla fine, tuttavia, nella loro vaghezza e confusione, ne adombrano uno piú profondo, metafisico e religioso, appena tratteggiato, spesso solo nascosto nelle pieghe del simbolo e del mito. È questo un gioco di allusioni che Dostoevskij usa (e vela) in gran parte in modo consapevole.
Il piano e l’esecuzione del delitto danno agio a Dostoevskij di mettere a fuoco la questione del libero arbitrio: Raskol’nikov ritiene di aver liberamente concepito un piano studiato nei minimi particolari. Eppure, arrivato al dunque, compie un errore dietro l’altro e si muove in modo meccanico e incosciente. Nel momento in cui Raskol’nikov si decide al delitto perde la propria libertà e indipendenza interiore. Ma alla fine quello diventa un ingranaggio che lo risucchia, in una sorta di eclissi della volontà. È la malattia che genera il delitto o è il delitto stesso che per sua natura è accompagnato da una malattia, una sorta di perdita della saldezza dell’essere umano?
Il diavolo entra in Delitto e castigo sotto le mentite e innocue spoglie di un proverbio, ma man mano la sua azione diventa piú scoperta fino alla confessione di Raskol’nikov a Sonja: « Lo so anch’io che mi ci ha trascinato il diavolo… […] Io volevo solo dimostrarti una cosa: che è stato il diavolo a trascinarmi là, dopodiché mi ha spiegato che non avevo diritto di andarci perché io sono un pidocchio tale quale gli altri! […] La vecchiaccia l’ha uccisa il diavolo, non io ».
Il romanzo è tutto percorso da valori simbolici: sono disseminate allusioni alla resurrezione di Lazzaro: gli odori (Pietroburgo tutta puzza di decomposizione, fino al pezzo di vitello dell’ultimo pasto di Svidrigajlov, come il corpo di quattro giorni di Lazzaro), la pietra dove Raskol’nikov seppellisce la refurtiva (i soldi, anch’essi corpo in putrefazione, si sono deteriorati), nel vicolo Voznesenskij, dell’Ascensione. Il tema di Lazzaro ha una doppia valenza: storica e religiosa. Paragonare la Russia e l’intelligencija a Lazzaro in attesa della risurrezione era un luogo comune nei dibattiti degli anni Sessanta.
Perché, in fondo, il romanzo tratta di questo: non del travaglio psicologico o morale di un assassino, non del miracolo della sua rigenerazione e risurrezione, ma del prodigioso credere nella possibilità della risurrezione. Le questioni dell’immortalità, della fede, dell’incredulità entrano continuamente nella trama del romanzo, nel quale, come per Sonja il vero miracolo in cui sperare, piú che la risurrezione, è la fede.
Di fronte al giusto castigo non domina la sensazione del trionfo della legge, ma quella dell’infelicità del condannato.
Scrive Dostoevskij : “Il popolo non nega il delitto e sa che il criminale è colpevole. Il popolo sa soltanto di essere anche lui colpevole insieme a ogni criminale ».
All’inizio del romanzo il sogno di Raskol’nikov sulla povera cavallina seviziata a morte dalla folla ubriaca pone il problema del male e della colpa, ciò che segue ne sarà uno sviluppo, una variazione e una risposta. Chi ha colpa di quella sfrenata crudeltà? Di certo non solo il proprietario proprietario che per vanteria vuol divertire la folla.
Male è tema tragico per eccellenza, e in Dostoevskij esso è vissuto alla maniera della tragedia antica, come colpa. Fin dall’inizio emerge l’implacabile senso della colpa, non per qualcosa di particolare, per un atto compiuto, ma come condizione originaria dell’uomo, come partecipazione di ognuno al Male universale:
Raskol’nikov sta al centro di una rete i cui nodi, gli altri personaggi, riflettono o sviluppano un tratto dell’eroe principale. Due polarità sono solitamente variate con diverse gradazioni. Orgoglio versus umiltà, nichilismo versus fede, rivolta versus accettazione, pazzia (malattia) versus ragione.
Dostoevskij in un appunto indica proprio nella sofferenza il fulcro del romanzo: L’idea del romanzo. Non c’è felicità nel comfort, la felicità si compra con la sofferenza. L’uomo non nasce per la felicità. L’uomo si conquista la propria felicità e sempre con la sofferenza.