Svetlana Aleksievič, (1948) premio Nobel per la leteratura nel 2015, è una giornalista e scrittrice ucraina naturalizzata Bielorussa. Perseguitata dal regime di Aljaksandr Lukašėnka, è stata costretta a lasciare il Paese. Dopo un periodo trascorso tra Russia, Italia, Francia, Germania e Svezia, nel 2013 è tornata a vivere a Minsk, ma sotto la minaccia dell'imminente arresto da parte del regime, a settembre del 2020 è stata costretta alla fuga in Germania.

Nella sua carriera ha seguito i principali eventi dell’Unione Sovietica del 900: dalla guerra in Afghanistan, al disastro di Černobyl’, ai suicidi seguiti alla scioglimento dell’URSS. I suoi libri rappresentano uno struggente romanzo corale degli uomini e delle donne vissuti nell’Unione Sovietica e nella Russia post-comunista del XX secolo.

In ragazzi di zinco fa parlare i protagonisti della grande tragedia della guerra in Afghanistan.  

E’ un libro di “voci” come il coro di una tragedia greca.

Tra il 1979 e il 1989  un milione di ragazzi e ragazze partirono per sostenere la "grande causa internazionalista e patriottica"; 

“Eravamo vittime di una fede cieca. Ci parlavano degli ideali della Rivoluzione di aprile. E noi ci credevamo, perché eravamo stati abituati così, a credere, fin dai banchi di scuola.”

“A scuola era la classe a decidere, all’istituto il consiglio didattico, in fabbrica il collettivo di lavoro. Dappertutto c’era chi decideva per me. Mi hanno inculcato che un uomo da solo non può niente.”

“Quando sono partito per laggiù, in me non c’era più niente da ammazzare: “I volontari, due passi in avanti”: tutti hanno fatto i due passi in avanti, e io insieme a loro.”

Almeno quattordicimila di loro furono rimpatriati chiusi nelle casse di zinco e sepolti di nascosto, nottetempo;

“tenevo in mano un cacciavite, non erano riusciti a portarmelo via.–Lasciate che gli scopra il viso... Lasciatemi vedere mio figlio...–Volevo aprire la bara di zinco con quel cacciavite.

Cinquantamila feriti; torture, droga, atrocità, malattie, vergogna, disperazione... Gli 'afgancy', i ragazzi che la guerra ha trasformato in assassini, raccontano ciò che si è voluto nascondere. 

“Non si deve mai versare il sangue, neanche per una volta, perché poi è difficile fermarsi…”

“Una cosa che ho capito in guerra è che nell’uomo non c’è granché di umano.”

“eravamo partiti da uno Stato che aveva bisogno di questa guerra e siamo tornati in uno Stato che non sa più cosa farsene.” 

“Noi abbiamo combattuto bene e con coraggio”

“A ferirci non è il fatto che non vogliano darci questo e quello, come avevano promesso, no. È il fatto che ci abbiano proprio cancellati.”

“Andatelo a scrivere sulle targhe nei cimiteri, incidetelo sulle pietre tombali che tutto questo non è servito a niente!».”

Accanto a loro, un'altra guerra. Quella delle infermiere e delle impiegate che partirono per avventura e patriottismo. 

E soprattutto le madri. Dolenti, impietose, stanche, coraggiose. 

“Chi ha combattuto veramente questa guerra, in prima linea? Le madri. L’hanno fatta loro questa guerra. Mentre il popolo non ha sofferto. Il popolo non sapeva.”

Aleksievic non racconta direttamente le atrocità della guerra ma indaga gli stati d’animo e la sua scrittura, il suo intervento è davvero minimo. 

«Qualche volta mi chiedo cosa sarebbe successo se non fossi capitato in questa guerra. Sarei felice. Non sarei rimasto così deluso di me stesso e non avrei mai saputo sul mio conto tante cose che è meglio non sapere. Come dice Zarathustra: quando spingi il tuo sguardo nell’abisso, anche l’abisso ti scruta nell’anima...

La corporatura dei libri è tutta realizzata dalla gente comune che fornisce le testimonianze.

“Quando tacciono le armi, la guerra ricomincia da capo. Bisogna ripensarla, riviverla. E fa ancora più paura…».

Un libro non per conoscere la Storia di quelle vicende ma per conoscere la storia dei sentimenti dei ragazzi, delle famiglie che ne vennero coinvolti.